Ho ricevuto oggi le prie copie del mio libro Padre Felice Cappello. Il confessore di Roma, edito da Shalom.
E’ una figura che mi ha molto appassionato e sono contento di averne potuto scrivere la biografia. E’ stato un grande apostolo della misericordia, un uomo di Dio, un testimone della fede e della carità.
Riporto di seguito la mia Introduzione.
Un vigile urbano di Roma pianse come un bambino quando seppe della morte di padre Felice Maria Cappello. «Cosa è successo?», gli chiesero. «Quel padre, che è morto…». Quindi raccontò: «Io faccio servizio da queste parti, lungo il Corso, nel punto in cui si attraversa per andare alla Gregoriana. Tutte le volte che vedevo arrivare padre Cappello arrestavo il traffico, poi prendevo quel vecchietto sotto braccio e lo accompagnavo dall’altra parte. Ed egli tutte le volte mi diceva: “Grazie, figliolo, ti dirò un’Ave Maria”. Il pensiero che un uomo come quello pregasse per me quanto bene mi faceva! E mi dava tanta pace».
A vederlo, ciò che appariva era un vecchietto vestito di nero, cappello in testa, ombrello in una mano e rosario nell’altra. Piccolo di statura, esile nella corporatura, un’andatura che rivelava il peso degli anni e delle fatiche accumulate, un portamento umile, quasi dimesso. Non aveva nulla della figura carismatica, così come la si intende oggi nel circo mediatico e televisivo, non sembrava il tipo di sacerdote capace di trascinare le folle grazie all’eloquio forbito e alla voce roboante. Chi lo vedeva camminare per le vie di Roma, nel tragitto che porta da piazza della Pilotta a via , poteva legittimamente pensare che fosse un parroco di campagna o di una periferia cittadina, arrivato in centro per sbrigare alcune commissioni.
Nessuno avrebbe pensato, a vederlo, che era un insigne professore, un esperto delle leggi della Chiesa, un confessore cercato e amato, una guida spirituale per tanti.
Il vigile urbano rimase stupito perché «un uomo come quello» pregava per lui. Cosa intendeva per «un uomo come quello»? Cosa aveva di speciale quel montanaro trapiantato dalla bellezza delle cime dolomitiche nelle storiche bellezze della Città Eterna?
Ci sono persone che per come vivono rimandano immediatamente ad Altro. Loro vivono con una speciale intensità il rapporto con il Destino eterno che è all’origine di tutte le cose. Vivono nel mondo, ma non sono del mondo, perché il loro cuore è stato conquistato da un Amore più grande. E grazie a questa dipendenza continua dal Mistero che si è fatto carne e ha offerto la sua vita per la salvezza degli uomini, in modo naturale, osmotico, comunicano ad altri ciò per cui vale la pena vivere, amare, soffrire. Ci sono persone che per gli altri diventano un segno, un punto di riferimento, un’oasi dove attingere acqua fresca nel deserto che incombe sul mondo. Padre Felice Maria Cappello era una di queste persone.
Per accorgersene non c’è bisogno che ne parlino i giornali o la televisione. Chi incontra queste persone vede scoccare la scintilla del divino che rimette in moto la loro esistenza, altrimenti perduta o avviata verso il nulla. E dopo averlo vissuto, raccontano di questo incontro straordinario ad altri, che a loro volta lo comunicano ad altri ancora. E si crea un movimento, che all’apparenza non ha alcuna incidenza storica o sociologica, ma che in realtà agisce nelle profondità del reale, perché ristabilisce il nesso profondo tra la vita concreta e il significato ultimo, eterno, definitivo.
Nel confessionale della chiesa di Sant’Ignazio per quasi quarant’anni è accaduto tutto questo. C’era sempre la fila: gente del popolo e sacerdoti, uomini e donne, ricchi e poveri, giovani e anziani, manager affermati e disoccupati, benestanti e squilibrati. C’era un popolo che aveva riconosciuto in lui una guida sicura. Da quel che sappiamo, non faceva discorsi lunghi e ricercati. Poche parole, essenziali, che però arrivavano dirette al cuore di chi le ascoltava, anche quando era un uomo che non si confessava da quarant’anni. Chi c’è andato, ha raccontato di essere uscito ridestato, trasformato, confortato da quegli incontri davanti alla grata.
Ci si chiede quale fosse il segreto di padre Felice Maria Cappello. Si racconta che le persone restavano colpite dal suo sguardo: non si soffermava sui loro limiti, sui loro peccati (questo era il passato!) ma su ciò che il Signore poteva fare di loro. E le persone lo percepivano, si sentivano lette, comprese, accolte, conosciute come loro stesse non riuscivano a conoscersi. Pensiamo di non esagerare se affermiamo che i penitenti che andavano da padre Cappello rivivevano nella loro carne l’esperienza dei poveracci che andavano da Gesù e tornavano risanati.
Padre Cappello è stato un testimone e un apostolo della misericordia divina. Parlare di misericordia non è fare del buonismo religioso a buon mercato, non è edulcorare le esigenze della dottrina per andare incontro alle miserie degli uomini. La misericordia – come documenta il magistero di papa Francesco – è il vero volto di Dio. E Maria, il cui nome don Cappello volle aggiungere al proprio quando si fece gesuita, è la Madre della Misericordia.
Da insigne giurista qual era invitava i sacerdoti a trovare la soluzione capace di far respirare le persone. Ricordava che la suprema legge della Chiesa è la salvezza delle anime. Da confessore applicava lo stesso criterio: le anime hanno bisogno di essere incoraggiate a credere sempre di più nell’amore di Dio che è immenso. Chi siamo noi uomini per stabilire limiti e confini alla misericordia di Dio?
Alle persone che si affidavano alla sua direzione spirituale, ripeteva di aver fiducia perché Dio sa far buone tutte le cose. Aveva la certezza che il destino si fa buono con tutti. Proprio con tutti, nessuno escluso. Dove arrivava lui, anche il cuore più indurito si scioglieva alle dolcezze della Grazia. Quanti moribondi, dopo un’esistenza lontana da Dio e dalla Chiesa, morivano con i sacramenti amministrati da padre Cappello! Torna la domanda: qual era il suo segreto? Era un uomo di Dio, uno che ci credeva davvero. Di un santo è abitudine dire «è un uomo di Dio». Questa appartenenza al Signore era la reale cifra della sua vita. Per amore di Dio, per la salvezza delle anime, offriva tutto se stesso. Pregava e offriva. Apostolo, confessore e asceta. Il suo segreto era l’ascesi. E Dio si faceva presente aprendo il cuore di chi lo incontrava.
Padre Cappello aveva la coscienza che è nell’istante che si gioca il destino di una persona. Per questo correva, pregava e offriva, quando era chiamato di fronte a chi si trovava nel drammatico momento del trapasso. Allo stesso modo, si trattasse di uno sconosciuto o dell’intellettuale di grido. E, guarda caso, si trovava sempre al posto giusto nel momento giusto.
Invitava a vivere ogni momento della giornata come se fosse l’ultimo. Chiedeva di essere sempre pronti di fronte all’eterno, che è il reale orizzonte del tempo. Non esiste il passato, il futuro è nelle mani di Dio, a noi resta la responsabilità del presente.
Padre Cappello era un uomo con lo sguardo rivolto all’eterno. Voleva conquistare gli altri all’eterno, cioè a vivere già nel presente il centuplo promesso.
È in corso la causa per la beatificazione. C’è da augurarsi che arrivi presto il giorno in cui la Chiesa gli renderà gli onori degli altari. Sarebbe un testimone formidabile di quella Chiesa «in uscita», ospedale da campo per le miserie degli uomini, che instancabilmente propugna papa Francesco.