Si potrebbe dire che il Meeting di Rimini è un luogo frequentato da santi. Non sembri un’affermazione esagerata. Non ci sono state sono le due stelle luminose di Giovanni Paolo II e madre Teresa di Calcutta. In attesa degli onori degli altari c’è il genetista Jerome Lejeune, già dichiarato venerabile, i ben noti servi di Dio Luigi Giussani, Oreste Benzi, Enzo Piccinini. Tutti protagonisti e ospIti del raduno riminese. E c’è anche il meno noto, per il momento, servo di Dio Andrea Aziani, di cui un libro contribuisce ora far conoscere la straordinaria vicenda umana: Gianni Mereghetti – Gian Corrado Peluso, Andrea Aziani, febbre di vita, Itaca, 2024. Aziani ha partecipato più volte al Meeting e nel 2006, insieme ad altri, è stato anche curatore di una mostra su Toribio Alfonso de Mogrovejo, vescovo missionario di Lima.
Nato nel 1953 ad Abbiategrasso, con la madre di origine ebrea-ungherese e un nonno senatore del Partito popolare, la sua vita si è dipanata attraverso quattro città: quella natale, poi Siena, Firenze, e infine Lima, in Perù, dove è morto da missionario nel 2008.
L’espressione “febbre di vita” che compare nel titolo indica pienamente la sua postura umana. Don Luigi Giussani ebbe a dire che «Cristo è un uomo, è un uomo che non si può sentire o che non si può incontrare, con cui non si può stare, se non in una febbre di vita, in una volontà di vita, in un gusto della vita, nella passione per la vita». Leggendo il libro si capisce che la febbre di vita in Aziani non nasce da un particolare temperamento (che certamente avrà avuto la sua parte), da un’indole vitalistica, ma, come scrive il vescovo Giovanni Paccosi nell’introduzione, dalla «sequela intelligente, creativa, e nello stesso tempo letterale, di ogni impulso di don Giussani e del movimento di Comunione e Liberazione». Michele Faldi, un amico che lo ha ben conosciuto in Perù, afferma: «Ho sempre incontrato un uomo che era totalmente immedesimato in Giussani». Chi non lo ha conosciuto direttamente, come noi che leggiamo il libro a lui dedicato, restiamo impressionati da ciò che può produrre in un uomo l’immedesimazione totale con un carisma. Ogni fibra dell’umano è valorizzata, potenziata e lanciata nell’avventura della vita. Si vede in lui cosa succede, quale bellezza fiorisce, quando Cristo raggiuge la carne viva dell’uomo.
Andrea aveva incrociato il carisma di don Giussani giovanissimo, attraverso il fratello Paolo, e negli anni dell’università aveva consolidato questa appartenenza. Il sacerdote milanese pensa innanzitutto a lui quado un monaco di Siena, padre Capra, gli chiede di mandare quattro giovani di sua fiducia per cominciare una presenza cristiana in università. Andrea parte per primo, poi arriveranno gli altri tre. Resterà a Siena dieci anni, dal 1976 al 1986, anni turbolenti nella vita sociale, anni di scontri ideologici in università. Anni per Andrea decisivi, come ricorda in una lettera scritta due mesi prima della morte, perché attraverso quelle vicende è emerso che «tutto è solo grazia, solo grazia, come dice l’antica e cara frase di Camus», «allora possiamo domani ricominciare perché, come diceva Piccinini, e ora anche Carron dice spesso, il bello deve ancora venire».
In quegli anni di Siena, poi a Firenze, e poi ancora a Lima, Andrea andava sempre di corsa, – incontri, volantinaggi, manifestazioni, ecc. – preso non da attivismo, ma dal compito di vivere ogni particolare come risposta ad una Presenza. Alto, di bella presenza, in realtà curava poco il suo aspetto. Gli amici a volte lo costringevano a prendersi buoni vestiti per determinate occasioni, ma duravano poco, subito li donava ai poveri che incontrava. Mangiava e dormiva poco, aveva frequenti incidenti, tanto che Giussani fu costretto a proibirgli di guidare. Aveva l’aspetto del rivoluzionario, barba lunga e basco alla Che: una volta arrivato a Lima, diventerà amico, e lo metterà in contatto con don Giussani, del rivoluzionario Juvenal Nique Rìos, che con Che Guevara aveva combattuto per un periodo nella Sierra peruviana. Nell’agosto del 1977 don Giussani concluse a La Thuile l’assemblea internazionale del movimento con una lettera ricevuta da Juvenal, lasciando incredulo e commosso Andrea.
Sempre rispondendo ad un invito di don Giussani, Andrea Aziani nel 1989 parte per il Perù. Ancora una volta parte da solo, solo dopo lo raggiungeranno altri Memores. «Si ricomincia da Uno! Anche qui non ci sono altre alternative!», scrive ad un’amica. Aziani citava il titolo di un intervento di don Giussani all’indomani del referendum sull’aborto in Italia.
Con quale coscienza ha vissuto in Perù? «Che qualcuno si innamori di ciò che ha innamorato noi. Ma per questo, perché sia così noi dobbiamo bruciare, letteralmente ardere di passione per l’uomo, perché Cristo lo raggiunga». I quasi vent’anni trascorsi in Perù sono l’espressione di questo fuoco missionario che ardeva in lui. Si fece peruviano con i peruviani, cambiando anche il proprio nome in Andres. Il libro è ricco di testimonianze su ogni aspetto. Forse le più toccanti sono quelle che riguardano la carità di Andrea, pagine che sembrano altrettanti fioretti francescani. Racconta il fratello: «Non aveva mai un soldo. Papà gliene mandava o dava ad ogni incontro. In famiglia ci si preoccupava ed interrogava sul perché non ne avesse mai, pur vivendo in modo così frugale. Quando ad un anno dalla morte di Andrea, papà ed io siamo andati a Lima, abbiamo avuto la risposta che sospettavamo: aiutava un numero incredibile di persone. Non solo senza ostentazione, ma in silenzio, di nascosto, all’insaputa anche degli altri Memores Domini con cui viveva».
A Lima Aziani, su invito del vescovo Lino Panizza, è fra i fondatori dell’Università Cattolica Sede Sapientiae per i giovani dei quartieri poveri. Disse subito di sì alla proposta, ma al vescovo precisò che avrebbe chiesto anche a chi guida il movimento. Aderì perché lui desiderava servire la Chiesa in ogni sua richiesta, ma volle anche precisare chi fosse l’autorità della sua vita. Sono i vescovi che parlano di lui a raccontare che sempre chiedeva in cosa potesse essere utile alla Chiesa.
Aziani si impegnò molto come docente universitario, e anche su questo aspetto abbondano nel libro gli aneddoti. Gli studenti dei corsi serali, stanchi per il lavoro, spesso arrivavano in ritardo e i docenti chiedevano che non fossero ammessi alle lezioni. Lui disse: «In realtà noi dovremmo inginocchiarci di fronte a loro, perché ci danno l’occasione di riconoscere Cristo presente».
In un uomo così ogni circostanza diventa emblematica. Non sorprende quindi che le sue ultime parole, prima di accasciarsi e poi morire siano state: «Noi abbiamo un motivo per cui facciamo tutto, un motivo. Sapete qual è? Noi facciamo le cose per Cristo, per Cristo!».
A chiedere di aprire il processo di beatificazione non è stato il movimento di CL o un’associazione a lui legata. È stato il vescovo Lino Panizza di Lima. La Chiesa, che aveva tanto amato, si è mossa perché siano riconosciute le sue virtù eroiche. Andrea non sarà, ci permettiamo di dire, un santo della porta accanto, espressione ormai abusata e che comunque conserva una distanza, “accanto”. Sarà invece un santo della nostra porta, della nostra casa, del nostro bar, della nostra scuola, della nostra università, del nostro posto di lavoro. Uno con cui ci si può identificare.